Ero piccolo, avevo solo quattro anni, quando quei soldati entrarono in casa ordinando alla mamma di vestirsi rapidamente e di uscire portando con sé provviste per tre giorni, coperte e ogni oggetto di valore. «Ho solo un anello» rispose mamma. Poi uscì. E io con lei.
A papà avevano detto di non muoversi.
Poi chiamarono anche lui e insieme fummo portati alla piazza del paese dove si trovavano tutti gli altri abitanti. Anche Vorech, il mio cane, mi aveva seguito.
Ero felice con lui vicino quando un soldato si avvicinò dandogli una pedata.
Iniziai a piangere e mamma mi disse accarezzandomi i capelli: «non piangere tesoro, non è niente, non aver paura». «Se non era niente, perché la mamma stava singhiozzando?»
La piazza era ricoperta di libri, di quadri, di tante belle cose che i soldati buttavano dalle finestre. Ricordo che papà fece appena in tempo a prendermi in braccio, a dire qualcosa alla mamma, poi alcuni soldati lo portarono via.
Il mio era un bel villaggio. Piccolo, con i suoi 483 abitanti. Ci abitavano 192 uomini, 196 donne e 95 ragazzi non ancora sedicenni. Un centinaio di case dominate dal campanile della chiesa di San Martino.
Uno dei tanti paesini sparsi tra le colline della Boemia Occidentale. Anche se minuscolo avevamo tutto quello che ci serviva, persino un corpo di vigili del fuoco volontari.
Perché quei soldati ce l’avevano con noi? Col nostro pacifico villaggio?
Tutto era cominciato il 29 maggio 1942 a Praga, con l’attentato al Reichprotector di Boemia e Moravia, Reinhard Heydrich. Era stato ferito da una granata lanciata sulla sua Mercedes.
Colpito da una scheggia alla spina dorsale era morto di setticemia il 4 giugno.
La rappresaglia tedesca era stata feroce. Non so in base a cosa, ma furono fucilate 1.331 persone, comprese 201 donne. Poi altri 3.000 ebrei prelevati dal campo di Theresienstadt.
Fu il Segretario di Stato di Boemia e Moravia, Karl Hermann Frank a fare il nome del mio villaggio.
«Durante le ricerche degli assassini del generale Heydrich è stato accertato come la popolazione di questo villaggio abbia sostenuto e aiutato i colpevoli».
Non era vero niente.
Era bastata una lettera sequestrata dal proprietario di una fabbrica ad un’operaia. Nella missiva, che la donna aveva ricevuto da uno sconosciuto, da consegnare a una famiglia del mio villaggio, c’era scritto di salutare un certo Pepik. Del quale non si avevano notizie dal 1939.
Quindi era lui il colpevole dell’attentato.
Era assurdo e falso, ma la Gestapo si lanciò su quella pista come un lupo affamato, perché malgrado arresti, torture e fucilazioni non aveva trovato i colpevoli dell’attentato.
E quella conclusione arrivò sulla scrivania di Hitler.
Hitler fu chiaro. «Fucilare la popolazione maschile e radere al suolo il villaggio, visto che i paracadutisti uccisori di Heydrich sono stati aiutati dagli abitanti del paese».
Fucilare la popolazione maschile e radere al suolo il villaggio. Il mio villaggio.
Il suo nome? Lidice.
Mi chiamo Václav Zelenka, e sono io quel bambino.
Era il 9 giugno 1942 quando a Lidice arrivarono reparti della Gestapo, degli Schupo, della Wehrmacht e della gendarmeria locale pronti a passare casa per casa per prendere tutti, uomini, donne e bambini.
Dopo averci riuniti nella piazza del paese venimmo separati. Gli uomini, tra cui papà, vennero portati alla fattoria degli Horak dove furono controllati uno per uno utilizzando i registri anagrafici.
Al sindaco comunicarono che tutto il denaro della banca era stato confiscato.
Le donne invece e noi bambini fummo portati nei locali della scuola. E lì quei soldati si presero tutti i loro preziosi.
Il 10 giugno ci caricarono sui camion diretti a Kladno e rinchiusi nella palestra del liceo, mentre a Lidice, iniziavano le esecuzioni degli uomini del paese.
Furono chiamati i primi cinque uomini e messi con la faccia contro il muro della fattoria distanziati di un metro. Il funzionario Felk spuntò i loro nomi con una crocetta sul registro dell’anagrafe.
Poi il plotone di esecuzione composto da quindici militi sparò loro alla schiena.
Poi fecero avanzare altri cinque e così via. I cadaveri si ammucchiavano, ma tutto era troppo lento.
Iniziarono allora a chiamarne dieci alla volta.
Quegli uomini non erano legati eppure nessuno tentò di fuggire, nessuno si diede alla disperazione.
Alla fine rimasero sul terreno 171 cadaveri.
Ne mancavano 21. Otto erano stati arrestati dopo la storia della lettera. Furono presi e fucilati. Altri 11, lontani per lavoro, furono rintracciati e uccisi. Si salvarono dalla fucilazione in 2. Un mugnaio e un operaio metalmeccanico.
Il tutto avvenne mentre Lidice veniva dato alle fiamme e raso al suolo.
Niente doveva rimanere in piedi. Niente rimase in piedi.
E le donne e i bambini?
Le 196 donne furono caricate su un treno speciale che le trasportò al campo di sterminio di Ravensbrück. Morirono in 53.
I bambini furono sottoposti al “controllo della razza” per accertare se fossero idonei alla “germanizzazione”.
Alcuni furono scelti, gli altri furono inviati al campo di Chełmno per essere uccisi nelle camere a gas.
Solo 17 tornarono a casa.
Václav Zelenka fu fortunato. Per i suoi capelli biondi e gli occhi azzurri fu selezionato per la rieducazione in Germania. Nell’aprile del 1945 fu assegnato alla famiglia di Karel e Johanna Wagner a Bühlau vicino a Dresda.
Poi, dopo il bombardamento di Dresda, a Lohsa, 0Václav Zelenka tornò in Cecoslovacchia il 28 maggio 1947 ritrovando sua madre, sopravvissuta al campo di concentramento di Ravensbrück.
Vissero insieme fino al 1951, quando si trasferirono nella Lidice ricostruita.
Lui è stato una memoria costante di quello che accadde a Lidice.
Negli anni ’70 è entrato nel consiglio comunale di Lidice e nel 1998 è stato eletto sindaco. Durante il suo mandato è stato completato il Memoriale di Lidice.
Václav Zelenka è morto il 13 novembre 2021 all’età di 83 anni.
Ricordate la lettera che dimostrava il coinvolgimento di Lidice nell’attentato? Era tutta una montatura.
E i preziosi sequestrati alle donne di Lidice? L’elenco fu ritrovato dopo la guerra. Incompleto. Gli uomini della Gestapo avevano fatto sparire la maggior parte dei preziosi.
E ricordate i 2 uomini sfuggiti al plotone di esecuzione? Un mugnaio e un operaio metalmeccanico che faceva il turno di notte? Sfuggirono al plotone, ma non alla morte.
Il primo s’impiccò nel suo mulino. Il secondo si tagliò le vene nella cantina di casa. Per la disperazione.
Hermann Franck nel comunicato emanato il giorno dopo il massacro e la distruzione di Lidice. «Nessuno dovrà mai ricordare che un giorno è esistito un paese chiamato Lidice».
Si sbagliava.
Da quel giorno Lidice venne impresso nella memoria del mondo intero.
Per non dimenticare.
Nota della redazione
Noi de “La memoria rende Liberi” a Lidice ci siamo andati, abbiamo visitato il memoriale, il museo, ma soprattutto la commovente scultura in bronzo dedicata ai bambini di Lidice, che guardano i visitatori con espressioni incredibilmente penetranti. A loro abbiamo dedicato un altra Storia di Shoah: i bambini di Lidice.
Racconto tratto dal canale Twitter Johannes Bückler
Le storie di Johannes Buckler sono state anche raccolte in libri, pubblicati con grande successo dalla casa editrice People
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