Prigioniera numero 76150

“Tanto tu torni sempre”, diceva mamma ogni volta che sparivo da casa per andare a giocare o a leggere.
Aveva ragione. Ero piccola allora.
Oggi ho 23 anni e quella frase è l’unica cosa che mi tiene in vita.
Che ci faccio nel campo di concentramento di Ravensbrück?
Una lunga storia.

So cosa state pensando. Sono qui perché sono ebrea. Oppure una partigiana, sicuramente antifascista convinta.
Sbagliato. Niente di tutto questo.
Ve l’ho detto, è una lunga storia.
Iniziata il 15 luglio 1922 in Via Tommaso Grossi, a Como.
Il giorno della mia nascita.

Dimenticavo. Mi chiamo Ines Figini.
Papà Stefano aveva una bottega di panettiere in Via Milano.
Mamma Adelina si occupava della casa e di noi figli. Cinque per la precisione.
Papà era molto severo con me, ma ci pensava mamma a calmarlo.
«E’ piena di energia, lasciala fare!»

A casa funzionava. A scuola un po’ meno.
Essendo vivace qualche scappellotto dalla maestra me lo prendevo.
In fondo dicevano che eravamo “Figlie della Lupa”. Odiavo la matematica, ma amavo molto leggere. Quando potevo disporre di qualche libro mi allontanavo da casa.

Per leggere in pace.
All’inizio mamma si preoccupava, mi cercava e finiva sempre con una ramanzina.
Poi si abituò, «tanto prima o poi torna a casa». Mamma mi insegnava a gestire la casa.
Stirare, fare il bucato, cucinare e lavare i piatti.
Perché «ogni donna si deve arrangiare»

In fondo a scuola riuscivo bene, tanto che la maestra insistette con mamma e papà per farmi continuare a studiare.
Non fu possibile.
Come i miei fratelli anch’io dovetti iniziare a lavorare.
Il mio primo lavoro?
Presso una sarta, senza interrompere la mia passione per la lettura.

Alla fine venni assunta dalla Tintoria Comense, una vecchia fabbrica fondata nel 1872.
Produceva filati e stoffe di seta.
Nel 1906 era stata acquistata da una società francese.
Se alla fine dell’Ottocento i dipendenti erano circa seicento, trent’anni dopo erano oltre duemila.

«Se lavori in Comense hai il pane assicurato» si diceva ai miei tempi.
Fu lì che iniziai la gavetta.
All’inizio come operaia nella stampa a mano.
La disciplina era molto rigida, soprattutto per noi donne, sempre costrette a portare le calze lunghe, anche d’estate.

Un vero fastidio.
Però mi trovavo bene alla Comense.
Avevano sempre molti riguardi verso noi dipendenti. La cassa mutua interna, un dottore ogni mattina per chi aveva bisogno, e una colonia estiva per i figli degli operai.
L’Opera San Vincenzo aiutava gli operai in difficoltà

Perché mi trovo nel campo di concentramento di Ravensbrück?
Un attimo, un po’ di pazienza
Alla Comense si faceva anche sport.
Il fascismo aveva imposto l’attività fisica anche nelle aziende.
Diventai la capitana della squadra di pallavolo.
Tra il lavoro e lo sport poco altro.

Qualche ballo all’Esperia, in via Diaz, con le amiche.
Io e Anna eravamo molto diverse
Anche mamma ci trattava in modo diverso.
Quando Anna era fuori mamma si preoccupava sempre.
Invece quando ero fuori io nemmeno mi aspettava sul cancello.
Un giorno decisi di affrontarla.

 

«Quando esce Anna tu rimani fuori ad aspettare che arrivi. Invece non vieni mai sul cancello ad aspettare me…Mi spieghi perché?»
«Perché tant tì ta turnat sémpar (perché tanto tu torni sempre).
La strada per tornare a casa, tu, in un modo o nell’altro la trovi…» mi rispose.

Alla vigilia dello scoppio della guerra, papà non voleva si affrontasse l’argomento.
A Como in quel periodo l’industria serica contava 318 stabilimenti, con trentamila dipendenti.
Con la guerra e la chiusura dei mercati francesi e inglesi l’attività produttiva si era dimezzata.

Il clima alla Comense diventò teso.
In produzione entrarono prodotti di uso bellico.
Molti operai vennero arruolati.
Poi nel 1938 le leggi razziali, ma nessuno in famiglia era ebreo.
Nel 1942 i primi bombardamenti su Como da parte della RAF.
Poi la mancanza di materie prime.

Il fascismo era presente ovunque.
Noi tutti zitti per paura delle spie.
Accogliemmo l’armistizio dell’8 settembre con entusiasmo.
Finalmente la guerra era finita. Durò poco.
La notizia della liberazione del duce da parte dei tedeschi ci confermò che la guerra continuava.

Sapevamo di rastrellamenti di ebrei e antifascisti. C’era carenza di cibo, di vestiti e combustibili.
E proprio perla carenza di combustibile, nel febbraio del 1944, l’attività alla Comense fu sospesa per alcuni giorni.
Senza preavviso.
Iniziarono così le proteste.

Accadde tutto il 6 marzo.
Andai al lavoro come sempre, ma capii subito che qualcosa non andava.
C’erano volantini ovunque, con l’invito a ribellarsi ai tedeschi e a sospendere il lavoro al fischio delle dieci.
Ebbi un brutto presentimento.
Alle dieci ci fermammo tutti.

Non ci volle molto perché arrivasse la polizia fascista.
Il direttore Walter si infuriò nel vedere quei fascisti, ma quelli iniziarono a interrogare gli operai.
Volevano i nomi degli organizzatori di quello sciopero.
Capimmo.
Quando al momento di uscire trovammo i cancelli chiusi

Dopo averci detto che lo sciopero era vietato iniziarono a chiamare qualcuno per nome.
Secondo loro erano quelli i responsabili dello sciopero. Li conoscevo tutti.
Quando ci dissero che quelle persone sarebbe finite in Germania a lavorare, la mia rabbia ebbe il sopravvento.

«Non è giusto!», urlai. Silenzio di tomba.
«Non è giusto portare via solo loro: abbiamo scioperato tutti, dovete arrestarci tutti! O tutti, o nessuno»
Lo avevo detto per solidarietà, ma anche perché mica potevano fermare tutta la produzione.
infatti ci lasciarono andare via tutti

A mezzanotte udimmo bussare alla porta.
Erano due fascisti con i fucili spianati.
«Chi di voi è Ines Figini?».
«Chiarisco tutto e torno subito», dissi ai miei genitori.
Il resto potete immaginarlo, o leggere il libro “Tanto tu torni sempre. Ines Figini, la vita oltre il lager”.

“L’uomo si scoraggia facilmente, la donna reagisce meglio”.
Ero tranquilla.
Mi avevano detto che sarei andata in Germania a lavorare.
E all’inizio ci avevo creduto.
Partimmo in treno da Bergamo, destinazione Mauthausen, poi ad Auschwitz, infine qui a Ravensbrück.
Dove sono ora.

Ines Figini, liberata dai russi il 5 maggio 1945 fu ricoverata in ospedale, a causa del tifo e della flebite, fino all’ottobre del 1945.
Riuscirà a raggiungere Como il 25 ottobre 1945.
Ad attenderla a casa il papà e la mamma.
La sua prima richiesta? Un piatto di polenta.

Dopo l’8 settembre l’Italia diventò un territorio da sfruttare.
La deportazione serviva a soddisfare il fabbisogno di manodopera per l’industria tedesca.
Questo fu il destino di molti italiani.
Ebrei, partigiani, antifascisti e gente come Ines.

Grazie a Chiara Rancati per avermi suggerito di raccontare la storia di Ines Figini, prigioniera numero 76150.
Una donna che ha provato tutti gli orrori dei campi di concentramento, ma che alla fine riuscì a perdonare.
Ines si è spenta nel 2020 all’età di 98 anni.


Racconto tratto dal canale Twitter Johannes Bückler

Le storie di Johannes Buckler sono state anche raccolte in libri, pubblicati con grande successo dalla casa editrice People

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