Chi visita Auschwitz 1 si troverà certamente a percorrere un corridoio, neanche molto lungo ma quasi interminabile, perché tappezzato con le foto dei volti dei prigionieri – dei più “fortunati” di essi, quelli ritenuti in grado di lavorare appena scesi dai treni, quindi censiti come abitanti del campo e non inviati direttamente alle camere a gas e ai crematori.

Sono foto in cui ciascuno di essi guarda la macchina fotografica con espressioni diverse, alcune prive di speranza
altre sfidanti
altre ancora colme di stupore
ma tutte ugualmente terrificanti, perché sotto queste fotografie si può leggere il loro nome, la loro professione, la data di ingresso ad Auschwitz e quasi sempre la data di morte, molto spesso dopo pochi giorni o settimane di permanenza.
Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga. (Primo Levi)
Loro non erano numeri, triangoli o simboli, erano donne,
uomini
e bambini…
Ciascuno di questi occhi, assieme all’intero campo di sterminio, è come una specie di campanello che suonando ci ricorda che noi siamo ancora vivi, e che tutti abbiamo fortunatamente un’occasione di far bene, di amare, di amarci e di influire sul mondo intero.
E uscendo dal campo viene da dirsi “io non ho MAI avuto una brutta giornata nella mia vita!”
FONTI:
Auschwitz-Birkenau museum and memorial – www.auschwitz.org